L’errore più importante degli studenti di pianoforte

Perché alcuni allievi non hanno risultati

Molti adulti che iniziano a studiare pianoforte si trovano, dopo qualche mese, a provare frustrazione: hanno investito tempo, hanno ripetuto esercizi, eppure i risultati non arrivano come speravano.

La cosa peggiore è che spesso non sanno nemmeno individuare il motivo per cui non stanno migliorando. E allora si convincono che non hanno talento, o che sia troppo tardi. 

Il punto è che la maggior parte degli allievi si butta a fare cose senza capire bene perché 🤔.
Prendono un esercizio tecnico, lo ripetono cento volte, ma non sanno rispondere alla domanda: “Qual è lo scopo di questo esercizio? A cosa mi deve servire dentro un brano reale?” 🎶

E questo è il primo errore: confondere il mezzo 🛠️ con il fine

Dorothy Taubman, una delle più grandi pedagoghe moderne dice che molti esercizi tecnici tradizionali “causano molto più danno che beneficio” quando sono praticati senza contesto musicale.

Dorothy Taubman mentre svolge una lezione pubblica.


È quello che gli esperti chiamano pratica “play and pray” – suona e spera 🙏 – invece di pratica deliberata. Ripetere meccanicamente sperando che qualcosa migliori, ma senza sapere cosa vuoi davvero ottenere.

La tecnica non è mai un fine a sé, ma serve a rendere possibile l’espressione musicale.

Per questo motivo, studiarla senza integrarla subito nel contesto per cui nasce (il repertorio) non ha proprio senso e porta spesso a mollare o a farsi male.

Un altro problema è che molti non hanno nemmeno chiaro l’obiettivo

Ti faccio un esempio: un allievo dice “voglio imparare a suonare il piano”.
Ma cosa vuol dire? Vuole suonare per se stesso, per rilassarsi? Vuole arrivare a suonare Chopin?  Vuole accompagnarsi mentre canta? Vuole trovare una valvola di sfogo dalla routine quotidiana?

Ho analizzato questo tema nel video che ti lascio qui sotto. Per quanto mi riguarda è il miglior modo per cominciare un percorso, non solo al pianoforte.

A volte, all’inizio, nemmeno sappiamo perché iniziamo (e ci sta), ma con il tempo, anziché avvicinarsi al perché, ci si allontana sempre di più allocando le proprie energie nel puro svolgimento di esercizi o nel tentativo di “completare” i singoli compiti assegnati.

C’è una ricerca affascinante di Pete Jutras che nel 2003 ha intervistato 700 studenti adulti di pianoforte. Sai cosa ha scoperto? Che gli adulti valutano i “benefici personali” – il piacere , il rilassamento , la crescita personale 🌱 – come più importanti dell’acquisizione di abilità tecniche.

L’illusione di controllare il processo con gli indicatori: completare e controllare

Alla nostra mente piace tanto “completare” qualcosa (altrimenti le collezioni di figurine non avrebbero avuto tanto successo) e poter controllare. 📊 Controllare in generale.
E quale strumento più utile per controllare se non i numeri? 🔢
Quante persone ho conosciuto che mi hanno detto: “ho fatto tutto il Beyer” o “ho fatto tutto l’Hanon” (e io che penso sempre: e lo dici pure ad alta voce?)

E sai perché molti smettono? 🛑 

Due ragioni principali:

  1. aspettative irrealistiche: la trappola del completare porta velocemente a rendersi conto che le energie necessarie sono superiori a quelle di cui possiamo disporre
  2. e il fatto di essere trattati come bambini invece che come adulti con obiettivi specifici.

L’adulto ha un modo diverso di apprendere:

  • predilige la risoluzione di problemi anziché il nozionismo, 🧠
  • mette in campo la sua esperienza pregressa per apprendere nuovi concetti, 📚
  • preferisce capire il perché delle cose 🤔
  • e ha bisogno di vedere prima possibile i risultati dei suoi sforzi. 🚀Diversamente si abbatte e molla, soprattutto se intraprende una disciplina per rilassarsi o come hobby. 

Senza un obiettivo definito, qualsiasi strada può sembrare corretta, ma alla fine ci si perde e ci si scoraggia.  

Se invece sai l’obiettivo, puoi anche valutare ogni azione: “Quello che sto facendo oggi mi avvicina o mi allontana da ciò che voglio?”

E qui entra un concetto fondamentale: molti studiano “in automatico”

Ripetono quello che è stato scritto su un metodo, o quello che hanno visto fare da altri, senza mai inserirlo dentro un contesto più ampio. Senza collegare ogni singolo passo al quadro generale. 

È un po’ come chi si iscrive in palestra senza sapere con precisione cosa vuole e cosa può ottenere (realisticamente). 🤷‍♂️Va tre volte a settimana, fa un po’ di macchinari, un po’ di pesi, ma senza un programma. Dopo due mesi si guarda allo specchio e non vede cambiamenti.  Allora molla pensando di aver faticato per nulla. In realtà ha camminato in circolo perché non aveva un programma con una meta precisa.
Mancava una direzione precisa

E al pianoforte succede lo stesso: se non sai perché stai studiando un certo esercizio, se non lo colleghi all’uso reale dentro la musica, finisci per girare a vuoto.  Ed è qui che entra in gioco un concetto che cambierà completamente il vostro modo di vedere lo studio: la legge di Goodhart.


La legge di Goodhart e le sue applicazioni

Definizione della legge di Goodhart

Charles Goodhart, un economista britannico, nel 1975 formulò quella che oggi conosciamo come la sua legge osservando un fenomeno curioso nel sistema bancario. 

La sua formulazione originale era molto tecnica e specifica per l’economia monetaria: “Qualsiasi regolarità statistica osservata tenderà a collassare una volta che viene usata per scopi di controllo.” Goodhart aveva notato che quando il governo britannico cercava di controllare l’economia attraverso certi indicatori monetari – tipo la quantità di moneta in circolazione – le banche iniziavano a manipolare proprio quegli indicatori. 

Il risultato? I numeri sembravano a posto, ma l’economia reale andava a rotoli.

Ma fu l’antropologa Marilyn Strathern nel 1997 a trasformare questa osservazione economica in un principio universale con la formulazione che usiamo oggi: Quando una misura diventa un obiettivo, smette di essere una buona misura”.

La genialità di Strathern è stata capire che questo principio non si applica solo all’economia, ma ovunque nella nostra vita. Facciamo qualche esempio.

Voti a scuola

A scuola il voto dovrebbe essere un indicatore: serve a dirti se hai capito l’argomento. Ma spesso diventa l’obiettivo. Lo studente non studia più per imparare, ma per prendere un 7 o un 9. Allora memorizza a memoria, fa il compitino, e appena passa l’esame dimentica tutto. Ha raggiunto il numero, ma non l’obiettivo reale: comprendere.

Donald Campbell, uno psicologo che già nel 1975 aveva formulato una legge simile, avvertiva: quando i test diventano l’obiettivo del processo educativo, “perdono il loro valore come indicatori e distorcono il processo educativo in modi indesiderabili”.  

Esami del sangue

Stessa cosa con gli esami clinici. I valori servono a misurare lo stato di salute. Ma molte persone si preoccupano solo di “stare dentro i range”. Cambiano abitudini solo per far scendere un numero, magari assumono un farmaco che maschera il valore, ma senza modificare davvero lo stile di vita. Così il numero rientra, ma la salute resta a rischio.

C’è un esempio terribile dagli ospedali britannici: per rispettare l’obiettivo governativo di tenere i tempi di attesa del pronto soccorso sotto le 4 ore, alcuni ospedali hanno iniziato a tenere i pazienti nelle ambulanze parcheggiate fuori. Tecnicamente non erano ancora “entrati” nel pronto soccorso, quindi il timer non partiva. Il numero era rispettato, i pazienti stavano peggio.

Palestra

In palestra la misura può essere il peso sollevato o le ripetizioni fatte. Ma il vero obiettivo dovrebbe essere stare meglio, avere un corpo efficiente, sentirsi forti nella vita di tutti i giorni.

Se però uno pensa solo a sollevare di più, può rovinarsi le articolazioni o allenare un muscolo isolato senza migliorare nei movimenti reali. Ha fatto crescere il numero, non la sua abilità.

Edward Deci nel 1971 scoprì quello che chiamò “effetto di sovragiustificazione”: quando introduci metriche esterne per attività che dovrebbero essere intrinsecamente motivate, distruggi la motivazione interna. In palestra significa che inizi per stare meglio ma finisci ossessionato dai numeri sul display.

Pianoforte

E al pianoforte? L’equivalente è l’esercizio tecnico. La scala più veloce, l’arpeggio più preciso, l’ottava più forte. Tutto questo è utile, ma se diventa un obiettivo a sé rischia di diventare vuoto.

Prendiamo Carl Czerny, allievo di Beethoven. Quest’uomo scrisse più di 1000 studi tecnici. Mille! Una progressione sistematica dall’Op. 599 per principianti fino all’Op. 740, “L’arte della destrezza”. Ma spesso questi studi sono mal utilizzati per puro drilling” – ripetizione meccanica – “piuttosto che per risoluzione di problemi musicali”.

Il risultato? Suonare Czerny senza capire a cosa serve può “rafforzare abitudini tecniche inefficienti e inibire la crescita reale”. Non solo non migliori, peggiori!

Perché nella musica reale non esistono solo scale o solo arpeggi: sono sempre mescolati con altri elementi, intrecciati in una frase, dentro un contesto emotivo. Allora il pericolo è che la persona diventi bravissima a fare l’esercizio isolato, ma incapace di contestualizzarlo in un brano.

Quindi, la legge di Goodhart ci avverte: attenzione a non confondere il segnale con la meta. Il voto, il numero, l’esercizio tecnico sono strumenti. L’obiettivo è un altro: capire, essere in salute, muoversi bene, suonare con espressione.


La trappola psicologica dei numeri

Perché il cervello ama i numeri?

Ma perché cadiamo così facilmente in questa trappola? Perché l’essere umano ha una grande attrazione per i numeri.

Kahneman e Tversky: i bias cognitivi

Daniel Kahneman e Amos Tversky, due giganti della psicologia cognitiva, hanno dimostrato che il nostro cervello funziona attraverso scorciatoie mentali – quello che chiamano “euristiche”. Una di queste è la tendenza a ridurre la complessità del mondo reale a indicatori semplici e misurabili.

I numeri ci piacciono perché ci danno l’illusione di poter controllare la realtà. Sono concreti, si scrivono, si confrontano, si ordinano. Ci fanno sentire che abbiamo tutto sotto controllo.

La teoria del carico cognitivo

John Sweller, con la sua teoria del carico cognitivo, spiega perché: la nostra mente ha una capacità limitata di elaborare informazioni. Quando ci troviamo di fronte a una situazione complessa – come imparare un brano al pianoforte – il cervello cerca di alleggerire il carico. 

Come? Aggrappandosi a quello che può misurare facilmente.

L’illusione del controllo

È più semplice tenere sotto controllo un numero che affrontare tutta la complessità della realtà:

  • a scuola: più facile puntare al 7 che chiedersi se ho capito davvero
  • negli esami del sangue: più facile dire “sono dentro i limiti” che ripensare a come mangio o a quanto mi muovo

in palestra: più facile contare quante ripetizioni faccio che valutare se il mio corpo funziona meglio

  • con il peso sulla bilancia: a volte, per farlo scendere velocemente come vogliamo, dimentichiamo il vero obiettivo – la salute – e ci addentriamo in diete pericolose

Non amiamo l’ignoto

E la nostra mente non ama l’ignoto. Cerca sempre una logica, un appiglio. Non sopporta l’idea di navigare nel buio. Per questo ci aggrappiamo a quello che possiamo misurare: il numero di scale, la velocità al metronomo, la quantità di volte che ripetiamo un esercizio.

La teoria di McNamara

Ma qui entra in gioco quella che Robert McNamara – segretario alla Difesa degli Stati Uniti durante la guerra del Vietnam – rese tristemente famosa: la fallacia di McNamara. McNamara era ossessionato dalle statistiche: contava i nemici uccisi, le missioni completate, le tonnellate di bombe sganciate. Pensava che questi numeri raccontassero tutta la storia della guerra. Ma ignorava completamente le metriche qualitative: il morale delle truppe, l’appoggio della popolazione, la complessità politica del conflitto.

Il risultato? Una guerra persa nonostante numeri apparentemente vincenti.

La fallacia di McNamara ci insegna quanto sia pericoloso ignorare le metriche qualitative perché non possono essere misurate. È molto comune anche in medicina: ho un sintomo, il medico cerca un indicatore per misurarlo, l’indicatore non esiste, il sintomo viene ignorato perché non misurabile. Se sto male ma non ho un valore sballato, allora “non sto davvero male”.

Purtroppo, da quando nasciamo, viviamo in questo ambiente permeato di numeri e indicatori che, anche se sono nati per aiutarci a definire meglio la realtà, sono diventati loro stessi l’obiettivo e non più il mezzo.

Al pianoforte la stessa dinamica

Al pianoforte funziona esattamente così. È molto più facile dire: “oggi faccio mezz’ora di scale” piuttosto che affrontare lo studio di un brano intero sezionandolo e studiando la tecnica necessaria per ciascuna sezione, facendosi domande, usando le proprie capacità di problem solving, pianificando e non buttandosi subito sul fare.

In un brano ci sono mille fattori da gestire insieme: ritmo, espressività, memoria, tocco, coordinazione, dinamiche. Non puoi misurarli con un numero.

La musica non vive nei numeri. La musica vive nell’esperienza, nel suono, nell’emozione.

Se trasformiamo la metrica in obiettivo, rischiamo di perdere proprio il senso del fare musica. La metrica è utile, ma solo se rimane un mezzo per orientarci, non la destinazione finale.


Excursus storico sui metodi tecnici

Per capire come siamo arrivati al modo in cui oggi pensiamo la tecnica pianistica, bisogna fare un salto indietro. La tecnica al pianoforte non è mai stata qualcosa di astratto: nasce sempre da un contesto storico, da uno strumento concreto e da un’idea di musica.

Dal clavicembalo al pianoforte

Nel Seicento e nel Settecento lo strumento di riferimento era il clavicembalo. Un tasto leggero, meccanica semplice, nessuna possibilità di variare l’intensità del suono con la pressione. Qui la tecnica era centrata sulle dita: indipendenza, agilità, controllo.

François Couperin, con il suo L’Art de toucher le clavecin (1716), non dà soltanto consigli pratici, ma mostra anche una visione didattica rivoluzionaria: la tecnica nasce dentro i brani. Il dito deve imparare a “parlare”, e l’ornamento è parte integrante del linguaggio musicale.

Ancora prima, Frescobaldi, nelle sue introduzioni ai libri di toccate (1615-1627), aveva già stabilito principi fondamentali che mettevano l’espressione al centro della tecnica. 

Le sue regole erano chiare: 

  • iniziare le toccate lentamente, arpeggiando gli accordi; 
  • non seguire una battuta rigida ma adattare il tempo agli “affetti” della musica, ora languido ora veloce; 
  • fermarsi sempre sull’ultima nota di trilli e passaggi per evitare confusione; 
  • sostenere molto le cadenze rallentando verso la conclusione; 
  • fermarsi prima dei passaggi difficili per poi eseguirli con decisione.
  • Conclude che “lo spirito e la perfezione di questo stile” dipende dal “buon gusto e giudizio” dell’esecutore nel gestire il tempo. 

Già nel 1615, Frescobaldi capiva che la tecnica doveva servire l’espressione, non dominarla.

Bach: la didattica attraverso capolavori

Johann Sebastian Bach, con le Invenzioni e le Sinfonie (1720 circa), dichiara esplicitamente l’intento pedagogico nel frontespizio: allenare l’allievo a “trovare buone invenzioni”, suonare bene in due e tre voci, acquisire “cantabile” e “agilità”. 

Questo approccio aveva preso forma proprio nel Klavierbüchlein vor Wilhelm Friedemann Bach (1720), un piccolo libro di esercizi scritto per il figlio maggiore di appena dieci anni, pensato per clavicordo e clavicembalo. In questo quaderno troviamo le prime versioni di quello che diventerà Il Clavicembalo Ben Temperato e le Invenzioni e Sinfonie, oltre a piccoli preludi, danze e persino una tavola degli ornamenti.



Due anni dopo creò un libro simile per sua moglie Anna Magdalen.
Un metodo che non separa l’acquisizione della abilità tecniche da quelle musicali. Non propone esercizi astratti, ma piccoli capolavori che uniscono tecnica e pensiero musicale. Ogni invenzione risolve un problema tecnico specifico, ma lo fa attraverso l’arte

Le Suite francesi, le Suite inglesi, le Partite hanno lo stesso scopo: danze stilizzate che allenano agilità, fraseggio, controllo ritmico, ma sempre dentro un contesto espressivo e stilistico preciso.

Preludio dalla suite francese n.2 di J.S.Bach

Preludio dalla suite inglese n. 4 di J.S.Bach

L’arrivo del fortepiano e la rivoluzione del tocco

All’inizio del Settecento Bartolomeo Cristofori inventa il pianoforte: corde percosse, possibilità di suonare piano e forte attraverso il tocco. Nasce un mondo nuovo. Il tocco delle dita non basta più: serve coinvolgere il peso del braccio.

Pian piano i trattati iniziano a considerare la tecnica del corpo intero. Carl Philipp Emanuel Bach, nel suo Saggio sulla vera maniera di suonare il clavicembalo (1753), già parla di “espressione” e del coinvolgimento fisico ed emotivo dell’esecutore.

Dall’Ottocento: l’era del virtuosismo

Con Franz Liszt, Frédéric Chopin, Johannes Brahms, il pianoforte moderno si afferma come strumento di massa e di spettacolo. La tecnica diventa monumentale:

Liszt scrive i 12 Studi trascendentali che allenano resistenza, grandi salti, ottave, intrecci virtuosistici. Ma guardate: anche qui ogni studio ha un titolo poetico (Mazeppa, Feux follets, Harmonies du soir) perché la tecnica deve sempre servire un’idea musicale.

Chopin compone i suoi Studi Op. 10 e Op. 25 che lavorano su aspetti specifici – arpeggi, terze, cromatismi, poliritmia – ma sempre con valore artistico assoluto. Schumann li chiamava “poesie” più che esercizi.

Brahms affronta il pianoforte con un suono pieno, orchestrale: le sue Variazioni Paganini spingono verso una tecnica poderosa, di grande controllo sonoro e resistenza muscolare.

Lo stesso spirito anima anche i suoi 51 Übungen (che in realtà sono 88): non meri esercizi meccanici, ma frasi musicali vere e proprie, capaci di coniugare lavoro tecnico ed espressione artistica.

La frattura: tecnica separata dalla musica

Ma è proprio nell’Ottocento che si crea la frattura di cui parliamo. Con la diffusione del pianoforte come strumento borghese, nasce l’industria dei metodi didattici.

Carl Czerny, allievo di Beethoven, scrive più di 1000 studi tecnici. Mille! Una progressione sistematica dall’Op. 599 Il primo maestro del pianoforte per principianti fino all’Op. 740 L’arte della destrezza. Czerny aveva un’idea precisa: catalogare ogni difficoltà tecnica e risolverla attraverso esercizi mirati. Il problema nasce quando questi studi vengono svuotati dal contesto musicale. Diventano pura ripetizione meccanica invece che risoluzione di problemi espressivi.

Jean-Baptiste Duvernoy, Charles-Louis Hanon con Il pianista virtuoso, Henri Bertini: tutti creano sistemi di esercizi seriali. Hanon in particolare propone 60 esercizi che promettono di risolvere tutte le difficoltà tecniche. Ma sono esercizi completamente astratti, senza alcun contenuto musicale.

L’evoluzione del concetto di tecnica

Nel Novecento inizia una rivoluzione. Si passa dal “dito isolato” al “corpo intero”: spalla, braccio, polso, mano e dita come un sistema unico. La tecnica non è più solo meccanica, ma anche gestione del peso, dell’energia, del rilassamento.

Dorothy Taubman sviluppa un approccio che mette al centro i movimenti naturali del corpo. Dice una cosa fondamentale: molti esercizi tecnici tradizionali “causano molto più danno che beneficio” quando sono praticati senza contesto musicale.

Heinrich Neuhaus, il grande pedagogo russo, nel suo L’arte del pianoforte scrive: “La tecnica è subordinata alla musica, così come le parole sono subordinate al pensiero”.

Non si può costruire una tecnica in astratto e poi applicarla alla musica. La sua scuola appartiene alla grande tradizione pianistica russa del Novecento. Neuhaus fu maestro al Conservatorio di Mosca e formò alcuni tra i più grandi pianisti del secolo: Sviatoslav Richter, Emil Gilels, Radu Lupu, Lev Naumov. Questa linea pedagogica è passata alla storia come scuola russa, caratterizzata da un forte legame tra profondità espressiva, solidità tecnica e ricerca del suono.

Il ritorno al contesto

Oggi i migliori pedagogisti tornano all’approccio di Bach: la tecnica si sviluppa dentro i brani, non fuori. Ognuno con un obiettivo preciso, ognuno inserito in un contesto musicale che gli dà senso. Perché? Perché abbiamo capito che l’approccio seriale, meccanico, spesso crea più problemi di quanti ne risolva. Rinforza abitudini inefficienti, crea tensioni inutili, e soprattutto allontana dalla musica invece di avvicinare.


L’importanza di determinare la tecnica in base agli obiettivi

Qui arriviamo a un punto decisivo. Studiare tecnica “perché si deve” è il modo migliore per perdere motivazione. Non basta sapere che “fa bene”, serve che abbia un senso dentro il proprio percorso.

Il carburante è la motivazione

Per un adulto che inizia da zero, la priorità non è diventare un virtuoso, ma restare motivato

La motivazione è il vero carburante: senza quella, anche l’esercizio migliore diventa un peso e porta all’abbandono.

Ricordate: la tecnica è come allenare un muscolo. Ma se non la colleghi al gesto reale, resta sterile. Al pianoforte, il gesto reale è fare musica: fraseggiare, comunicare, emozionare.

Come valutare i progressi reali

Invece di chiedere “Quanto veloce?” o “Quante volte?”, prova queste domande:

  • Riesco a rilassarmi mentre suono?
  • Questo gesto mi aiuta nel brano che sto studiando?
  • Mi sento più espressivo di prima eseguendo queste abilità tecniche nei brani che suono?

Un cambio di mentalità fondamentale

Invece di pensare “Oggi devo fare tecnica e poi musica”, prova a pensare “Oggi faccio musica e uso la tecnica per farla meglio”.

È un cambio sottile ma rivoluzionario. Nel primo caso la tecnica è un dovere, un ostacolo da superare prima di arrivare alla parte bella. Nel secondo caso la tecnica è uno strumento che ti aiuta a realizzare quello che hai in mente.

Heinrich Neuhaus lo spiegava così ai suoi allievi: “Non studiate per diventare pianisti. Studiate per diventare musicisti che usano il pianoforte”.

Consigli pratici

Coltiva la motivazione intrinseca

Edward Deci, psicologo statunitense e tra i fondatori della Self-Determination Theory, ha dimostrato con le sue ricerche che la motivazione intrinseca – quella che nasce dal piacere dell’attività in sé – è molto più solida e duratura della motivazione estrinseca, che invece si basa su premi, voti o numeri.

Come si coltiva questa motivazione? Tenendo sempre vivo il legame con il perché di ciò che si fa. Se lavori su un arpeggio, pensa al Notturno di Chopin che desideri suonare: quell’esercizio ti avvicina a esprimerne la poesia. Se studi le scale, ricorda che ti permetteranno di improvvisare con più libertà o di affrontare brani complessi con naturalezza.

L’approccio del “problema-soluzione”

Invece di fare esercizi a tappeto, prova questo approccio:

  1. Individua un problema concreto in un brano che ti piace
  2. Cerca la soluzione tecnica specifica per quel problema
  3. Lavora sulla soluzione in modo isolato
  4. Riapplica immediatamente nel contesto del brano
  5. Verifica che il problema sia risolto

Questo metodo mantiene sempre vivo il collegamento tra tecnica e musica, e ti dà la soddisfazione immediata di vedere risultati concreti.

Non aver paura della lentezza

Una delle trappole più comuni è l’ossessione per la velocità. Ma la velocità fine a se stessa non serve a niente. Anzi, spesso nasconde imprecisioni e tensioni che poi sono difficili da correggere.

Vladimir Horowitz diceva: “Io non studio mai veloce. Studio sempre lentamente e preciso. La velocità arriva da sola quando il gesto è perfetto”. È una conseguenza della sicurezza, non il fine.

La lentezza ti permette di:

  • controllare ogni dettaglio
  • memorizzare correttamente i movimenti
  • ascoltare davvero il suono che produci
  • mantenere il rilassamento
  • collegare ogni nota al senso musicale

Dalla frustrazione alla gioia

Ricordate come abbiamo iniziato? Con l’immagine dell’adulto frustrato che non vede risultati dopo mesi di studio. Ora sappiamo perché succede: perché aveva confuso il mezzo con il fine, perché studiava “in automatico”, perché era caduto nella trappola di Goodhart.

Ma la buona notizia è che si può uscire da questa trappola. Basta cambiare approccio:

  • Invece di “devo fare tecnica” → “uso la tecnica per realizzare la musica che ho in mente”
  • Invece di “quante ripetizioni” → “quelle che bastano per suonare meglio”
  • Invece di “più veloce” → “più sicuro”
  • Invece di “esercizi separati” → “soluzioni a problemi musicali”
  • Invece di “perché si deve” → “perché mi serve per…”

Non vi prometto che diventerete virtuosi in sei mesi. Non vi prometto trucchi magici o scorciatoie miracolose.Vi prometto qualcosa di più importante: che potrete innamorarvi del processo di apprendimento. Che ogni momento di studio può diventare un momento di scoperta. Che la tecnica, invece di essere un ostacolo, può diventare il vostro miglior alleato per esprimere la musica che avete dentro.

Perché alla fine, questo è quello che conta davvero: non quanti esercizi riuscite a fare, ma quanta gioia riuscite a trovare nel suonare. Non quanto siete veloci, ma quanto riuscite a emozionarvi ed emozionare.

La musica non è una gara contro il cronometro. È un dialogo con voi stessi, con il compositore, con chi vi ascolta. E in questo dialogo, la tecnica è la vostra lingua. Più la conoscete, più potete dire. Ma ricordate sempre: la tecnica esiste per servire il messaggio, non per diventare il messaggio.

Quindi, la prossima volta che vi sedete al pianoforte, prima di iniziare qualsiasi esercizio, chiedetevi: “Cosa voglio dire oggi con la musica? E come può aiutarmi la tecnica a dirlo meglio?”

Non cadete nella trappola di Goodhart. Non trasformate l’esercizio in un idolo. Usate la tecnica come mezzo, e ogni passo vi porterà non solo a muovere meglio le dita, ma soprattutto a far vivere la musica.

Perché quello è il vero obiettivo: non suonare il pianoforte, ma far cantare l’anima attraverso il pianoforte.

E questo, credetemi, è alla portata di tutti. Indipendentemente dall’età, dal “talento”, dal tempo che avete a disposizione. Serve solo l’approccio giusto: quello che mette sempre la musica al centro, e usa tutto il resto – tecnica compresa – per servirla.

Buono studio, e soprattutto… buona musica.


I 5 punti da ricordare

  1. La legge di Goodhart: “Quando una misura diventa un obiettivo, smette di essere una buona misura”
  2. Il problema della tecnica isolata: gli esercizi senza contesto musicale possono fare più danni che benefici
  3. L’importanza degli obiettivi chiari: la tecnica deve sempre servire un obiettivo musicale specifico
  4. Il metodo dell’alternanza: lavoro tecnico mirato + applicazione immediata in contesto musicale
  5. Il suono come giudice: non i numeri, ma la qualità musicale deve guidare i nostri progressi

Prima di ogni esercizio, chiediti: “Perché lo sto facendo e come mi aiuta a raggiungere il mio obiettivo musicale?” Se non sai rispondere, fermati e ripensa il tuo approccio.

La tecnica è il vostro servitore più fedele, ma non deve mai diventare il vostro padrone. Al servizio della musica, può portarvi lontano. Come fine a se stessa, vi terrà prigionieri.

Scegliete la libertà. Scegliete la musica.


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